Lo scenario che dal sagrato della chiesa di S. Pietro in Vallisnera, poteva osservare il viaggiatore medievale alzando lo sguardo verso le balze del Ventasso, doveva essere più o meno di questo tipo:

Il castello era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima di un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa da un mucchio di massi e dirupi, e da un andirivieni di tane e precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda a valle è la sola praticabile; un pendio piuttosto erto, ma uguale e continuato, a prati in alto.
Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione.
Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido, il signore dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi. Dando un'occhiata in giro scorreva tutto quel recinto, i pendii, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella a gomiti e a giravolte, saliva al domicilio, si piegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante.

Questo quadro, con un tocco di fantasia, il rispetto dovuto ai miti letterari e tenuto conto delle epoche diverse, ci fa scoprire una singolare somiglianza fra i luoghi a noi vicini del castello dei Vallisneri, con quelli manzoniani del maniero dell'innominato, di cui abbiamo rubato la sintetica descrizione.
Ma se il potentissimo innominato è passato ai posteri come figura emblematica di tiranno sanguinario, i modesti e tolleranti conti di Vallisnera possono forse entrare nella storia come precursori della democrazia.
Nel bel mezzo del medioevo, in tempi in cui i nobili e i potenti tendono ad aggiogare a sé uomini coi i loro beni e i loro discendenti, vincolandoli ad un legame, per così dire di schiavitù, anche attraverso l'obbligo di fornire prestazioni di ogni tipo, i nobili di Vallisnera si rendono protagonisti di alcune iniziative di rottura della tendenza in atto, nel segno dell'umanesimo cristiano e del presupposto che per diritto naturale tutti gli uomini nascono liberi e come tali debbono poter vivere: Si incomincia nel 1107, quando Rodolfo, la moglie Matelda e il fratello Gugliemo, concedono la libertà ad un servo della gleba. L'emancipato comune di Bologna farà un atto analogo ben centocinquant'anni dopo (1257)!
Ma l'evento più importante, ha luogo il 4 maggio 1207 nella Chiesa di S.Pietro in Vallisnera, che immaginiamo addobbata per le occasioni solenni. Fra i Conti Nicolò e Zibello Vallisneri e i rappresentanti delle località comprese nel territorio del loro feudo, si stipula un patto - "Lo Statuto di Vallisnera" - che fissa le regole volte a garantire la convivenza civile fra gli abitanti della contea e fra questi ed i feudatari, che riconoscono quindi un limite al loro potere sulla comunità. E come nota Ferdinando Laghi, è informato da uno spirito liberale, quasi moderno, di equità e di giustizia. Non viene imposto, ma proposto. Può essere discusso, modificato e se del caso approvato. Costituisce pertanto un innovativo strumento di democrazia e di legittimazione del potere attraverso il consenso.
Negli 80 capitoli che lo compongono e che ci consentono di comprendere la realtà di quel tempo, non è contemplata nessuna "angheria" del feudatario, all'infuori della segatura delle sue "prade", del diritto di legnatico come gli altri e della fornitura di un poco di frumento.
Non ci sono tracce di "servi" o "manenti" (servi legati alla terra di cui rimarrà traccia nel cognome) e tutti gli uomini sono liberi e piccoli proprietari.
 Viene prevista la nomina signorile del Podestà, ma con il contrappeso della elezione di Consoli, Massari, Campari (guardie campestri) ecc. da parte delle varie Ville, che godono quindi di autonomia amministrativa.

Oltre a regole e divieti inerenti pesi e misure, gioco d'azzardo, "Beccai" ( macellai ), "Tavernari" e le tariffe del "Nodare" (erano esose anche allora!), vengono stabilite le pene per i reati di natura "Criminale" (penale) e "Civile" che dovranno essere giudicati dal Podestà in modo imparziale.
Per il colpevole di omicidio c'è la decapitazione: "... sia punito della testa in tal modo chel mori e l'anima si parti dal corpo...".

La violenza sulle donne ( passano i secoli e l'uomo perde il pelo ma non il vizio ), era punita con la morte a meno che non vi fosse la possibilità di un matrimonio riparatore.
Per i ladri non c'era pietà: " ...ordinano ch'ogni famoso ladro debbia essere appiccato per la golla per modo chel mora e l'anima si parte dal corpo..."
Pene pecuniarie per i dazieri e i gabellieri corrotti ( tangenti anche allora! ), per i bestemmiatori, gli spergiuri, gli incendiari, i ladri di legna ecc.
Tempi duri anche per i lupi, la cui cattura, vivi o morti, è pagata in soldi imperiali.
Non se le passano meglio gli orsi e i cinghiali, che una volta uccisi, hanno però il vantaggio di dover rallegrare la mensa dei conti.
Poi ci sono i soliti privilegiati, come quelli "della Corte di Verugola" ( Fivizzano), che sono esentati dal "pagare alcuna Gabella, Datio, o Traversio" ( diritti di pedaggio e di passaggio).
Non ci si dimentica neppure, e qui si sente odore di federalismo, di fare il proprio elenco dei giorni festivi.

Gli "huomini" che hanno l'onore di approvare tale storico documento sono: " Lombardo d'Valisnera, Jacopino Nodare di Valisnera, Guido di Pedro Paulo della Fontana ( trattasi probabilmente di località posta in prossimità di Valbona oggi scomparsa ), Ziliolo dal Cereto, Gioanni di Pedro da Levaio ( Le Vaglie ), Rolandino di Pedro da Colagna, Pietro di Gioanni da Nismozza e Antonio Pelliciare di Acquabona".
Chissà se sarà stato presente anche un prete o un monaco e magari qualche contadino con le brache strette, la tunica a mezza gamba e il copricapo in mano. O qualche armigero precettato per l'occasione e le donne col velo di tela un po' pudibonde e curiose, in fondo alla Chiesa. Comunque sia, il documento scritto in volgare prima ancora di Dante anziché in latino per essere alla portata del popolo, è il più antico della nostra regione ed è antecedente alla famosa "Magna Charta" con cui il re d'Inghilterra, nel 1215, concedeva i primi diritti ai nobili, alla Chiesa e alle città!
Dunque, se così stanno le cose, uno sperduto feudo del nostro Appennino è più avanti, viaggia fra i primi sulla lunghissima strada che dovrà portare l'Europa al traguardo delle libertà democratiche. Questa è l'eredità e il vanto dei Vallisneri, i feudatari più longevi della nostra regione che, quando nel 1796, con l'avvento repubblicano vennero aboliti i feudi, accettarono con dignità il licenziamento ricevendo l'affettuoso saluto da quelli di Nigone, i loro ultimi sudditi. Ormai avevano poco da perdere e come scrisse un membro della famiglia " Non ho più altro bene al mondo che la sanità, l'abito che porto e la gratia di Dio".
Adesso del loro castello non è rimasto che qualche brandello di muro, mentre in una casetta perduta nella campagna di Cà del Cucco, (Castelnovo M.), vive l'ultimo erede montanaro di questo nobile casato dal passato glorioso, che annovera giuristi come Bonaccorso e scienziati come Antonio. Un passato poco conosciuto da riscoprire e valorizzare, perché fa onore alla terra che li ha ospitati.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

- FERDINANDO LAGHI - Lo Statuto di Vallisnera, Quaderni della Provincia di Reggio E., 1927.

- GIUSEPPE GIOVANELLI — Don Giuseppe Donadelli, Parrocchie di Vallisnera e Collagna, 1992.

- AA.VV. — Dieci secoli d'Europa, Ed. SEI, 1995.